Post-truth, la post-verità, è questa la parola internazionale dell’anno, eletta dalla Oxford English Dictionary, che sta a significare che l’emotività e le convinzioni personali sono più influenti sull’opinione pubblica dei fatti obiettivi. Con la post-verità, la verità, quella vera, non è più indispensabile: i fatti compiuti, in altre parole, non contano più niente, o quasi, nella costruzione di una verità. Secondo Gasper Grathwohl, presidente dell'Oxford English Dictionary, la parola scelta è stata “alimentata dall’uso dei social media come fonte di notizie e dalla crescente sfiducia nei fatti come presentati dall’establishment” e così post-verità esprime “un concetto che da qualche tempo ha trovato una base linguistica”. Grathwohl non ha dubbi: post-verità ha tutte le carte in regola per divenire “una delle parole chiave del nostro tempo”. Già, il nostro tempo, dove grazie alla velocità con cui le notizie fanno il giro del mondo, è possibile acquisire una verità, o meglio una post-verità; siamo continuamente coinvolti ed investiti da informazioni e ci procuriamo la nostra post-verità senza riscontrarla oggettivamente. La parola post-truth non è nuova di zecca, da circa dieci anni è in uso ma nel 2016 ha registrato, secondo le rilevazioni degli esperti del prestigioso dizionario oxfordiano, un incremento di duemila punti percentuali rispetto al 2015, grazie ai commenti social sulla Brexit e sulla competizione elettorale statunitense. La vittoria della post-verità non è frutto solamente del proliferare del suo utilizzo, deriva anche dal fatto che esprime l’ethos della nostra società. A contendere il primato alla post-verità ci hanno provato parole come brexiteer, brexitiano o brexitiere, termini che indicano i sostenitori della Brexit, e su “alt right”, diminutivo di "alternative right", termine che ha accompagnato il percorso di Donald Trump verso la Casa Bianca.